venerdì 13 settembre 2013

Un caso di Coscienza 5 , seconda puntata, domenica 15 ottobre alle ore 21,10 su Rai1

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Venerdì 13 settembre 2013, ore 20:10:10
S. Maurilio - Vergine
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Un ragazzo morto in carcere
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di Patrizia Boi
13 settembre 2013
Un ragazzo morto in carcere
Domenica prossima 15 settembre alle ore 21.10, andrà in onda la seconda puntata della nuova serie "Un caso di coscienza 5" diretta da Luigi Perelli.In questo episodio, l'avvocato Rocco Tasca (Sebastiano Somma) dovrà affrontare un caso di violenza nelle carceri presumibilmente ispirato alla vicenda giudiziaria di Stefano Cucchi, il trentunenne geometra romano deceduto il 22 ottobre 2009 durante la custodia cautelare.
La vicenda, che scatenò l'interesse dell'opinione pubblica, si è conclusa il 5 giugno 2013 con la condanna in Primo grado di quattro medici e del primario dell'ospedale Sandro Pertini per omicidio colposo, un medico per falso ideologico e l'assoluzione di sei tra infermieri e guardie penitenziarie, per non aver contribuito alla morte di Cucchi.
Al di là di ogni polemica e di ogni difesa o accusa di parte, senza giudicare chi il processo ha assolto e condannato, è interessante rilevare che il caso Cucchi fece emergere altri 26 casi simili nello stesso anno (2009) di detenuti morti in carcere senza aver accertato la causa del decesso.
Supponendo che il sistema carcerario non sia attento ai detenuti, ma non è argomento di questa nostra riflessione esprimere un giudizio sul sistema carcerario, si potrebbe cercare di comprendere quanto accaduto ricordando l'opera di Michel Foucault, Sorvegliare e punire: la nascita della prigione, edita Einaudi.
Essa espone, infatti, il contrasto tra due forme di punizione: a) il supplizio pubblico; b) la pedante programmazione giornaliera prevista per gli internati in una prigione all'inizio dello scorso secolo.
Foucault mette in luce i cambiamenti avvenuti nei sistemi penali occidentali nell'ultimo secolo ed esamina la pubblica tortura in sé, una sorta di spettacolo di "piazza teatrale" con diverse funzioni ed effetti per la società.
Le funzioni perseguite erano: a) riflettere la violenza del delitto originario sul corpo del condannato; b) porre in atto la vendetta di chi è stato leso dal crimine sul corpo del colpevole.
Secondo Foucault "la legge era considerata un'estensione del corpo del sovrano, quindi era del tutto logico che la vendetta si incarnasse nella violazione dell'integrità fisica (corpo) del condannato".
Questa punizione aveva degli effetti collaterali indesiderati: a) forniva al corpo del condannato un palcoscenico su cui ricevere simpatia ed ammirazione; b) trasformava il corpo del condannato in un luogo del conflitto tra le masse ed il sovrano.
Spesso, infatti, le esecuzioni sfociavano in tumulti in appoggio del prigioniero.
Pertanto, la pubblica esecuzione si rivelava controproducente, addirittura l'antitesi degli interessi dello Stato.
Questo condusse gradualmente al passaggio dal sistema del supplizio pubblico a quello della punizione con la prigione.
Il passaggio al sistema carcerario attuale, a partire dalla riforma del sistema penale quasi contemporaneo alla Rivoluzione francese, sul piano socio-politico, secondo Foucault, sarebbe "funzionale agli interessi della classe borghese… Vi è un diverso modo di reprimere fermamente l'illegalismo dei beni (tipico della plebe, specie nei suoi strati marginali; furti, rapine, omicidi) rispetto ad una certa tolleranza verso l'illegalismo dei diritti (tipico dello scaltro borghese; truffe, corruzioni e simili)".
Insomma sembra che la tendenza a punire il corpo del condannato, retaggio del vecchio sistema penale legato alla punizione mediante Supplizio pubblico, produrrebbe un effetto di simpatia da parte del pubblico coinvolto e servirebbe solo a suscitare polemiche sulla legalità del comportamento di chi la mette in atto.
Tale è stato l'interesse suscitato dal caso Cucchi o casi analoghi - proprio per questa forma di simpatia che sempre si genera quando un corpo viene sottoposto a punizione, reale o presunta che sia -, che anche la Rai ha voluto dedicare a questo tipo di accaduto un episodio di fantasia dove, come precisa il protagonista Sebastiano Somma:"Non puntiamo mai l'indice contro le istituzioni, anche se trattiamo crimini che avvengono dentro le istituzioni. Cerchiamo di scavare nelle motivazioni che spingono un singolo a commettere un atto criminale".
Come suggerisce, infatti, Don Miguel Ruiz nel suo libro I quattro Accordi "Parlate con integrità. Dite solo quello che pensate. Non usate le parole contro di voi o per spettegolare sugli altri. Usate il potere della parola al servizio della verità e dell'amore" non dovrebbe essere nostro compito esprimere giudizi o critiche di sorta o provare a fare processi alle intenzioni, ma semplicemente provare ad ascoltare le ragioni di tutti.
Patrizia Boi

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martedì 10 settembre 2013

Un caso di coscienza 5

Nel secondo episodio,il prossimo 15 settembre, Rai 1, ore 21.10, si affronta il tema della violenza nelle carceri.Questa puntata,ispirata al caso di Stefano Cucchi, ha suscitato non poche polemiche...
Come in ogni stagione l’avvocato Rocco Tasca sarà protagonista di storie di fantasia, che rimangono però ben ancorate alla cronaca degli ultimi anni del nostro Paese. Tra quelle affrontate in questa nuova serie vi sarà anche un caso molto simile a quello che vide coinvolto Stefano Cucchi, il giovane romano arrestato per droga nell’ottobre del 2009 e deceduto misteriosamente pochi giorni dopo il ricovero in ospedale. La notizia di un episodio con tale tematica scatenò lo scorso anno numerose polemiche, oltre che l’immediata protesta del SAPPE. Il Sindacato di Polizia Penitenziaria, nella persona del segretario generale Donato Capece, dichiarò l’intenzione di scrivere una lettera di protesta al Presidente della Rai Anna Maria Tarantola, per evitare che si facesse demagogia su un tema tanto delicato quanto la vita in carcere, forzando volutamente la realtà. Come a voler scongiurare ulteriori polemiche a riguardo, Sebastiano Somma precisa:
"Non puntiamo mai l’indice contro le istituzioni, anche se trattiamo crimini che avvengono dentro le istituzioni. Cerchiamo di scavare nelle motivazioni che spingono un singolo a commettere, un atto criminale.”




Un caso di coscienza 5, su Raiuno torna Sebastiano Somma

Torna dopo tre anni l’avvocato Rocco Tasca (Sebastiano Somma), con “Un caso di coscienza 5″, la nuova stagione del legal thriller in onda da questa sera alle 21:10 su Raiuno. Prodotto da Rai Fiction e dalla Red Film, alla regia delle sei puntate della fiction c’è Luigi Perelli.
Il protagonista, dopo la perdita della moglie Erica (Barbara Livi), ha dovuto crescere da solo la figlia Eva (Karen Ciaurro). Non si è però dimenticato del suo lavoro, sempre deciso a difendere i più deboli in cause legali dove la prepotenza di alcuni e l’inefficenza delle istituzioni potrebbe mettere in pericolo degli innocenti.
Anche in questa stagione i casi di puntata saranno ispirati alla realtà del nostro Paese: si parlerà di razzismo, di violenza nelle carceri, di adozioni internazionali e dei “nuovi poveri”, ma la trama orizzontale della fiction avrà a che fare con un tema caro alle serie tv italiane, ovvero la lotta alla mafia.
Tasca, con l’aiuto di Alice (Loredana Cannata) e Virgilio (Stephan Danailov), indagherà su un traffico illecito di rifiuto tossici, che arrivano a Trieste per mano della camorra, decisa ad espandere il controllo sul territorio. I protagonisti saranno coinvolti in questo caso dal magistrato Giulia Longo (Vittoria Belvedere), da poco tornata a Trieste e decisa a combattere la mafia sempre più presente al Nord.
Ovviamente, ci sarà spazio anche per seguire le vite private dei protagonisti: Alice sentirà il desiderio di diventare madre, e proverà a cercare l’uomo adatto a lei, finendo però col correre qualche rischio. Ad aiutarla ci sarà Rocco, che inizierà a provare qualcosa per la donna.
Forte del successo delle scorse stagioni, “Un caso di coscienza” torna con una formula rodata, che vuole ancora una volta presentare casi vicini all’attualità senza dimenticarsi della componente thriller della fiction. “Questa serie funziona perchè affronta argomenti scottanti e parla di giustizia”, ha detto la direttrice di Rai Fiction Tinny Andreatta, “quest’anno ha deciso di parlare delle infiltrazioni mafiose nel nord-est, un tema di estrema attualità”.
Lo sceneggiatore Andrea Purgatori, invece, ha apprezzato il fatto che la serie sia stata girata interamente in Italia: “in questo modo e’ possibile migliorare la qualità del prodotto”, ha detto.
La forza di “Un caso di coscienza” sta in storie forti e personaggi che ormai sono conosciuti dal pubblico, capace di appassionarsi alle vicende di Rocco e dei suoi colleghi grazie anche all’attenzione alla realtà italiana. Raiuno crede molto in questa fiction, tanto da collocarla la domenica sera, quando la rete punta sulle serie tv per avvicinare il pubblico che scappa dai posticipi.

sabato 7 settembre 2013

La Fantasia nelle scene: Osvaldo Desideri e gli altri sognatori da Oscar

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/report/cultura/tre-marchigiani-da-oscar_20130907074505.html#.UisCafJH7Z5

http://www.wsimagazine.com/it/authors/patrizia-boi.html


WSI
Sabato, 7 Settembre 2013

REPORT - Italy, Cultura

Tre marchigiani da Oscar

Sognatori delle scene.

Tre marchigiani da Oscar
Osvaldo Desideri
Come suggerisce la prefazione del libro Oltre le stelle di Mirko De Frassine (Ed. Youcanprint): “Nel mondo ogni giorno si incrociano i destini di mille persone…”. A me è capitato di incrociare Osvaldo Desideri, uno di quei seri professionisti della scena che per cinquant’anni hanno creato i set cinematografici di film che hanno fatto epoca.
Mi sono chiesta da dove derivasse la sua fortuna, la sua energia e quel sorriso di giovinezza che caratterizza la sua figura. Si tratta di uno degli scenografi italiani che ha conseguito il riconoscimento più ambito, l’Oscar. Oggi Osvaldo ha settantacinque anni, ma conserva la curiosità e la voglia di mettersi in gioco tipica di un ragazzino. In effetti è difficile attribuirgli un’età perché lo caratterizza una continua voglia di rinnovamento: «Ho sempre cercato, nella mia vita, di dare valore alla sincronicità degli eventi, mi sono fatto guidare dagli incontri e ho seguito quella spinta interiore che mi faceva scegliere ciò che realmente desideravo piuttosto che ciò che era bene che facessi. Mio padre voleva che io facessi un lavoro più serio, uno di quelli che ti danno certezze, ma io non c’ero tagliato. Volevo fare quello che ho realmente fatto e non stare seduto dietro ad una scrivania ad annoiarmi tutta la vita. Mi sono affidato…».

Ognuno di noi in effetti è stato creato con dei talenti che lo contraddistinguono e se li asseconda seguendo l’istinto si aprono delle porte e si giunge ad avere successo. E chi conosce i fatti sa che Osvaldo non si è annoiato mai. Ha lavorato con i più grandi registi, ha viaggiato e conosciuto le culture di tutto il mondo, ha partecipato alla costruzione delle scene di film come Morte a Venezidi Luchino Visconti, C’era una volta in America di Sergio Leone, L’Ultimo Imperatore di Bernardo Bertolucci, Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? di Billy Wilder, per citarne solo alcuni.

Ma come è arrivato a poter fare tutto questo? Sono stati gli incontri? Quali destini ha incrociato Osvaldo?

«Uno degli incontri più importanti della mia vita è stato senza dubbio quello con Ferdinando Scarfiotti, pensa un marchigiano, come me. Lui era di Potenza Picena, un piccolo Comune vicino Recanati, io sono di Fermo. E poi eravamo quasi coetanei, lui del ‘41, io del ‘39. Il nonno Lodovico è stato uno dei fondatori della Fiat, erano aristocratici e proprietari terrieri. Ferdinando era aristocratico nell’aspetto, nel cuore e nell’anima. Si comportava sempre in modo gentile ed educato, era intelligente, sensibile, capace. Aveva una creatività intensa ed era sempre disponibile al confronto e al dialogo, uno di quegli uomini con cui è una fortuna lavorare».

Quale fu la circostanza che rese favorevole questo incontro?

«Scarfiotti era stato lo scenografo di Visconti in molti spettacoli teatrali, ma a un certo punto nel ‘71 Visconti gli offrì la scenografia di Morte a Venezia. Per questo lavoro lui aveva bisogno di collaborazione e scelse me e Nedo Azzini per l’arredamento. Fu una vera fortuna incrociarlo, mi ha insegnato tanto, con i suoi modi educati, con quel suo modo di guardare sempre profondamente le cose e con la delicatezza della sua arte. Poi ognuno percorse la sua strada, lui andò in America e divenne, insieme a Luciana Arrighi, uno degli scenografi italiani più richiesti e apprezzati all' estero. Io proseguii con i miei film, incontrando interessanti registi e facendo altri film, poi, quando Bertolucci propose a Scarfiotti la scenografia de L’Ultimo Imperatore, fui chiamato anch’io insieme a Bruno Cesari. È stato molto stimolante lavorare per quel film, cimentarsi alla costruzione di scene così colossali e articolate. C’è voluto un grande impegno, un intenso lavoro di progettazione e soprattutto abbiamo trascorso quasi un anno in Cina. Alla fine il giusto riconoscimento per noi tutti è stato l’Oscar! ».

Osvaldo Desideri ha lavorato con tanti registi, il cambiamento ha caratterizzato la sua storia artistica, perché?

«Sono sempre stato uno che dice quel che pensa e che cerca di fare ciò che sente in base alla sua verità e alla passione per la scena. Quando questo non potevo più farlo, allora preferivo cambiare e fare esperienze con caratteri diversi, oltretutto la varietà mi arricchiva. È proprio per questa volontà di essere fedele a me stesso e di voler sperimentare cose nuove che ho conosciuto i più svariati registi, nelle scelte si perde qualcosa e qualcosa si guadagna, basta andare sempre avanti senza guardarsi mai indietro. La conoscenza ne guadagna senza dubbio, i percorsi si arricchiscono. Se non fossi stato aperto al continuo cambiamento, magari avrei lavorato tutta la vita con lo stesso regista, sarei stato sempre un impiegato attaccato a una poltrona, cosa che non volevo fare assolutamente».

In effetti, certe volte capita di essere più adatti a determinati film o di essere in linea con la personalità di un regista, altre volte semplicemente non si è in sintonia perché si hanno punti di vista diversi e non è colpa di nessuno, è semplicemente la realtà dei fatti.

Desideri ha lavorato anche con un altro grande scenografo italiano, certamente il più premiato di tutti, Dante Ferretti: «Con Dante ho lavorato in quattro film: Mio Dio, come sono caduta in basso! di Luigi Comencini (1974), Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini (1975), Todo modo di Elio Petri (1976) e La città delle donne di Federico Fellini (1980). Anche lui marchigiano, di Macerata, e anche lui pressoché coetaneo, del ‘43. Ferretti è un autentico genio della scenografia, mi piacciono molto le sue potenti visioni. Lui ha lavorato tanto con Pasolini, ma il suo sodalizio con Fellini ha prodotto le scenografie fantastiche e oniriche congeniali alle atmosfere felliniane. Tra di noi è quello che ha avuto il maggior successo, sette nomination all’Oscar e tre Oscar, nel 2005 - per The Aviator, di Martin Scorsese; nel 2008 - per Sweeney Todd - Il diabolico barbiere di Fleet Street di Tim Burton; nel 2012 - per Hugo Cabret, sempre di Martin Scorsese. Ci accomuna anche una moglie che collabora alla scenografia. Da vent’anni mia moglie Ewa ed io lavoriamo sempre insieme, così anche per lui sua moglie Francesca Lo Schiavo, arredatore di set, è sua abituale collaboratrice».

Eppure Osvaldo ha incrociato anche altri due uomini che sono stati importanti.

«Devo riconoscere, però, che il mio successo non è legato solo ai due grandi scenografi che ho citato, ma anche a due maestri che mi hanno guidato quando muovevo i primi passi in questo fantastico lavoro. Il primo è stato Walter Patriarca, architetto, scenografo, costumista, pittore, filosofo e soprattutto uomo eccezionale. Mi ha insegnato il mestiere negli anni ‘60 quando costruivamo i set per i film con Bud Spencer. Il secondo, ma non meno importante, Nedo Azzini, con il quale ho iniziato l’avventura chiamata Scarfiotti, che era un gran personaggio della vita pubblica, impegnato in politica e con ottime doti commerciali. Insieme, Walter e Nedo, costituivano un uomo perfetto, quello che mi ha dato tutte le strutture per andare avanti. Con Walter ci incontriamo ancora ogni tanto, Nedo, purtroppo, è scomparso qualche anno fa…».

Per dirla con il Primo Accordo di Don Miguel Ruiz, Osvaldo Desideri è stato forse “impeccabile con la parola” nel senso che ha sempre detto quello che pensava e soprattutto ha cercato di non usare la parola contro se stesso, facendo ciò che lui riteneva verità e amore.

Con la sua parola Osvaldo ha sempre cercato di avere rispetto verso i geni che gli è capitato di conoscere riuscendo a discernere tra le abilità artistiche e il carattere e si è preso la responsabilità delle scelte e dei tagli effettuati.

Del resto, sempre secondo Don Ruiz, o meglio secondo l’antica saggezza Tolteca, noi sogniamo giorno e notte, noi siamo cioè addormentati e vaghiamo nel mondo in preda al nostro sogno. Ognuno ha un sogno diverso e normalmente vogliamo difendere il nostro e non siamo disponibili ad ascoltare veramente l’altro. Questo perché fin da piccoli siamo stati addomesticati dall’educazione familiare, sociale, ecc. Noi siamo nati liberi e pieni di desideri, ma i nostri desideri sono stati ingabbiati da quell’addomesticamento che ci ha riempito la mente di credenze. Allora è bene che rispettiamo il Secondo Accordo, cioè “non prendiamo nulla in modo personale” perché niente di quello che fanno gli altri è causa nostra, semmai è una proiezione della loro realtà, del loro stesso sogno. Diventando immuni alle opinioni e alle azioni degli altri non siamo più le vittime di un'inutile sofferenza e ci guadagniamo il nostro paradiso, cioè quello stato che raggiungiamo quando siamo in linea con noi stessi.

L’aver investito sull’essere realmente se stesso e l’essersi affidato alla sincronicità degli incontri ha fatto sì che Desideri riuscisse a realizzare il suo personale Sogno. Questa storia di destini che si incrociano ci spinga tutti a osare con i nostri desideri…
Foto:
1. Locandina de L'ultimo Imperatore, di Bernardo Bertolucci
2. Locandina di Morte a Venezia, di Luchino Visconti
3. Locandina di C'era una volta in America, di Sergio Leone
4. Jack Lemmon e Juliet Mills in: Che cosa è successo tra mio padre e tua madre? di Billy Wilder (1972)
5. Gian Maria Volonté in Todo modo di Elio Petri (1976)
6. Mio Dio, come sono caduta in basso! di Luigi Comencini (1974)
Pubblicato: Sabato, 7 Settembre 2013
Articolo di:  Patrizia Boi

Tre marchigiani da OscarTre marchigiani da OscarTre marchigiani da Oscar
Tre marchigiani da OscarTre marchigiani da OscarTre marchigiani da Oscar

martedì 3 settembre 2013

Intervista al Regista sardo Peter Marcias, regista del film "Dimmi che destino avrò", anteprima a Londra il 4 ottobre ai Raindance Film Festival 2013..

http://www.wsimagazine.com/it/diaries/report/cultura/dimmi-che-destino-avro_20130607093941.html#.UiY8rTbIZ89

http://raindancefestival.org/films/my-destiny/

"Dimmi che destino avrò" avrà l'anteprima a Londra il 4 ottobre ai Raindance Film Festival 2013



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WSI
Martedì, 3 Settembre 2013

REPORT - Italy, Cultura

Dimmi che destino avrò

Intervista al regista Peter Marcias.

Dimmi che destino avrò
In un mondo del cinema consacrato alla tecnologia e al 3D si incontrano ancora voci originali che si nutrono di poesia e di idee e cercano di trasmettere a un pubblico cannibalizzato dai nuovi mezzi del cinema, l’importanza dei silenzi, della lentezza e della semplicità.

Abbiamo intervistato un giovane regista di origine sarda, Peter Marcias (Oristano, 1977), autore di vari film tra cui I bambini della sua vita del 2011 e Dimmi che destino avrò, distribuito in questi mesi nei cinema italiani da Gianluca Arcopinto e la sua Pablo, con grandi apprezzamenti da parte di critica e pubblico. Ci ha accolto con solarità e simpatia nella sua calda dimora romana arredata con spirito e fantasia e ci ha stupito con la sua spontaneità.

PB: Salve Peter! Ho visto il film Dimmi che destino avrò con mia figlia di nove anni che ha detto: “Finalmente un film senza violenza e delicato”, è stato un intento della tua regia o dello sceneggiatore di trasmettere allo spettatore questo messaggio?
PM: Guarda, è partito tutto dallo sceneggiatore, Gianni Loy, che mi ha detto: “Peter, ti vorrei presentare degli amici… Mi è venuta un’idea che è nelle tue corde”. Gianni è un uomo sensibile, è un professore, un giurista, un uomo pieno di talento e interessi. Mi ha condotto al campo Rom di Monserrato – una cittadina attaccata a Cagliari – e da quel momento ho fatto lo stesso percorso che ha fatto il commissario nel film, sono stato invitato nelle baracche a prendere un caffè e poi tutto il resto. Devo dire che la prima impressione è stata piacevole: tutti quegli ambienti colorati e pieni di oggetti, quelle stufe sempre accese, quel calore che permea le stanze, quel continuo caricare la legna… insomma quelle case di legno sembrava che mi accogliessero. Da questa sensazione è partita l’atmosfera del film, il gusto per la convivialità è stato suggerito proprio dall’ambiente. Poi i film si sviluppano per mesi e il resto avviene strada facendo. E sono stati importanti i consigli del produttore Gianluca Arcopinto.

PB: Qualcuno ti ha chiesto che senso ha questo film senza effetti speciali nel futuro del cinema, ma tu credi che il vero cinema abbia un futuro negli effetti speciali, nella tecnologia spinta, nel chiasso degli inseguimenti, nei continui spostamenti della scena per confondere e stupire lo spettatore, oppure credi che siano le idee a dover veicolare il messaggio del cinema?
PM: Non la penso così, anzi, mi piacerebbe fare un film di quel genere, io sono versatile e malleabile. Per questa storia era utile avvalersi dei silenzi, il percorso narrativo lo rendeva indispensabile. In Italia c’è tutto un sottobosco di registi che fa nascere questo genere di film, ma secondo me si possono fare degli ottimi film anche giovandosi della tecnologia. Certo, visto che oggi il cinema se la deve cavare con dei piccoli budget, alla fine siamo costretti a lavorare molto sulle idee, però non ti nascondo che mi piacerebbe girare un film utilizzando le possibilità che offre la tecnologia, a patto, però, che si tratti di una bella storia.

PB: Perché hai fatto un film sulla cultura Romanès? Ti piace aprirti alla diversità in generale oppure sei attratto dalla magia dei Rom? O semplicemente preferisci schierarti con i più deboli?
PM: Io non sono dalla parte di nessuno quando giro un film, piuttosto mi coinvolgono le storie, mi piace arricchirle con un mio sguardo personale. E stavolta è capitato con questa sceneggiatura di Gianni Loy, che è un profondo conoscitore della cultura Rom. Mi piace, senza dubbio, parlare di diversità. Se devo essere sincero, cerco di far scontrare le diversità perché credo che questo confronto generi una crescita. In questo film è la diversità del commissario, di Alina, del figlio del commissario, della città di Cagliari, insomma tutte le diversità che sbucano dalla macchina da presa.

PB: Mi racconti un aneddoto sui campi nomadi?
PM: Ce ne sono diversi, ma mi viene in mente l’inizio. Dovevamo girare il film nel campo di Monserrato, ma due settimane prima di cominciare a girare, si è ammalato una personalità molto importante del campo. Lo avevo attentamente selezionato per interpretare il ruolo del padre di Alina, un ruolo importante! Mi hanno chiamato alle sette del mattino e mi hanno comunicato che Zahid era stato ricoverato e che era in coma. Ci sono stati attimi di forte apprensione, infatti il povero Zahid poi è morto. Io sono anche andato al suo funerale, l’ho vissuto con tutti loro. La questione più drammatica è che in un campo Rom quando muore una personalità importante si devono osservare 40 giorni di lutto… e non si può fare nulla, non si può accendere la televisione, non si può festeggiare e di certo non si può girare un film… Ma io dovevo iniziare le riprese, non potevo aspettare… i tempi, il budget… Insomma, alla fine ho cambiato campo, sono andato a girare al campo nomadi di Dolianova/Selargius utilizzando anche le persone già scelte a Monserrato. Ho mischiato le persone dei due campi ed è stato bello, ho potuto conoscere gente diversa, alla fine è stata una vera opportunità.

PB: Hai lavorato con due attori professionisti come Luli Bitri e Salvatore Cantalupo, ma la maggior parte dei protagonisti di questo film sono veri Rom e Sinti, giusto? Come è stato lavorare con loro? Che emozioni ti hanno trasmesso? Cosa ti hanno insegnato?
PM: È stato molto complesso fare i provini. La mia selezione è stata attenta e precisa. Grazie alla Fondazione “Anna Ruggiu” c’è stata una collaborazione con un regolare rapporto di lavoro, sono stati assunti in tutti i ruoli, attori, ma anche come aiuti alla scenografia, all’organizzazione, al catering e questo ha facilitato il nostro rapporto. Loro poi sono stati un’occasione perché mi hanno ricordato cosa manca oggi a noi italiani che viviamo in queste grandi città, in una dimensione spersonalizzante. Anche loro, per la verità, sono italiani, ormai vivono nel campo da quasi quarant’anni, ma hanno un modo di vivere che ricorda i piccoli paesi della Sardegna, dove si sta tutti insieme. I Rom vivono molto le relazioni, ci sono continue discussioni, dibattiti, discorsi anche molto accesi, mentre noi a Roma, oggi, non sappiamo nemmeno chi abita alla porta accanto… sia a Roma, ma anche a Cagliari, viviamo una situazione di solitudine e di disinteresse nei confronti dell’altro. Nella loro comunità c’è invece molta attenzione all’altro, ad antichi valori che noi abbiamo perduto. Loro mi hanno insegnato, quindi, l’importanza dei rapporti umani.

PB: E come vi siete preparati con la Bitri per farle entrare dentro il mondo Rom, per essere una di loro? Il risultato è stupefacente, è veramente a suo agio nel ruolo di Alina?
PM: Luli è una grande professionista, si è formata all’Accademia di Tirana. Lei interpreta un ruolo dopo essersi preparata, è molto recettiva nel profondo, tende a disinteressarsi, invece, delle cose futili. La preparazione più importante è avvenuta sul campo. Lei si è veramente messa in discussione buttandosi in quel tipo di vita per comprenderla e per poter diventare una di loro. Si è immersa in quella cultura e l’ha fatta sua. Non è stato facile, ma il risultato è stato ottimo grazie alla sua professionalità ma anche grazie alla sua volontà di mettersi in gioco, in ascolto degli altri e della sua voglia di imparare. Una delle cose che l’ha affascinata è stato il modo di vivere non strutturato e con poche certezza, una qualità che, per come si sta evolvendo la società, dovremmo conoscere meglio tutti noi che non ne abbiamo esperienza.

PB: Parlami dell’ambientazione del film: perché la scelta di una città come Cagliari, avevi bisogno di contrapporre il mare, la spiaggia, al disordine delle baracche dei campi Rom? Oppure il senso di infinito dell’orizzonte marino ti serve per allargare i confini con cui siamo abituati a confrontarci?
PM: Non vorrei fare un discorso troppo spicciolo, ma Cagliari è la mia città e ha sempre un posto nel mio cuore. Quando tu hai un’idea ti viene sempre più facile svilupparla, pensarla dietro casa. Nelle storie, occorre raccontare ciò che si conosce, anche se i grandi riescono a raccontare bene anche ciò di cui non hanno diretta esperienza. Poi Cagliari, la Sardegna, si prestano bene, mi piaceva narrare la dimensione dell’isola, l’accoglienza dei nomadi che vivono nel loro isolamento strutturato da secoli. E poi volevo tornare a girare a Cagliari per raccontare una versione diversa rispetto a quella che emerge dall’altro film I bambini della sua vita… Era anche un mio bisogno…

PB: In questo film non hai lavorato con scenografi professionisti, eppure le scene interne alle baracche zingare sono molto calde, c’è in qualche modo una certa poesia negli accostamenti degli oggetti, come hai ottenuto questo effetto? È merito delle inquadrature?
PM: Il merito è stato di lasciare tutto com’era. Le comunità Rom hanno dinamiche di spostamento e di organizzazione che sono molto poetiche soprattutto sul nascere della giornata. Ti faccio un esempio: loro si alzano la mattina e non pensano minimamente di farsi una doccia, di pettinarsi – non sono perfettini come noi e non lo dico con un’ombra di giudizio – loro stanno con i capelli arruffati, con i vestiti sgualciti, hanno una sorta di non precisione che genera un disordine metodico. Anche coloro che non sono allineati hanno un loro poetico ordine e questo traspare anche nel disordine che regna nel campo e che lo rende molto suggestivo. Puoi trovare il pentolino sul letto, la pastina sul divano e tutto questo è assolutamente naturale e spontaneo. Io sono stato molto attento a questo dettagli, ho cercato di coglierli. Le scenografie le hanno generate artisticamente loro stessi, io le ho fissate rispettosamente sulla pellicola.

PS: Quando hai girato il film I bambini della mia vita hai lavorato con scenografi professionisti come Ewa e Osvaldo Desideri, abituati ai più grandi registi del cinema, come ti sei trovato? Quale è stato il loro valore aggiunto alla tua regia?
PM: Con loro mi sono trovato molto bene. Hanno un modo di lavorare – lo dico senza giudizio ma piuttosto con ammirazione – molto accademico, hanno una notevole percezione delle cose strutturate con senso. Un tempo i set dei grandi registi erano studiati in ogni dettaglio, anche con un’accurata ricostruzione storica, ma i budget dei film erano diversi. La mia scommessa è stata mettere dei mostri sacri della scenografia in un film d’autore con piccoli capitali – questo film non ha superato il milione di euro –, è stata veramente una sfida. Osvaldo ha vinto l’Oscar per L’ultimo Imperatore di Bertolucci, è uno che sa il fatto suo, ha trovato delle soluzioni che hanno consentito di allineare la sceneggiatura. Lui ed Ewa hanno avuto una fantastica idea: aprire la Manifattura Tabacchi per girare le scene al suo interno. Sono riusciti a vedere il potenziale di quel luogo, costruendoci un piccolo set, una piccola Cinecittà sarda. Sono stati molto bravi a reinventarsi la città, a strutturare tutta la situazione in maniera molto più oggettiva di come avrei fatto io e hanno dato un’immagine poetica della mia città vedendo delle cose, delle realtà, degli scorci, che io non avrei visto… forse l’avrei infarcita della mia soggettività da sardo.

PB: È vero che si parla anche di bambini, ma il tema di questo film si presta poco alla visione di un pubblico troppo giovane, allora perché la scelta della formula cartone? Per alleggerire le scene più drammatiche?
PM: Hai ragione, mi piaceva alleggerire la situazione di disagio familiare in cui era costretta a vivere la bambina, volevo che la visione della bambina fosse alleviata dai colori. I cartoni animati hanno il potere di attenuare il disagio infantile.

PB: Una sorta di visione poetica permea ogni scena dei tuoi film, anche quando i temi sono tutt’altro che lievi; è un distintivo della tua sensibilità o la poesia è una scelta di fondo che caratterizza il tuo lavoro?
PM: Non si tratta di una scelta, faccio quello che è connaturato alla mia personalità. Sono il meno adatto a parlare del mio stile, seguo l’istinto nel mio lavoro, mi fido molto dell’istinto. A volte si possono prendere veri e propri abbagli, ma se divento un calcolatore non sono a mio agio, anche se il calcolo a volte può essere il segreto del successo.

PB: C’è un difficile lavoro di ricostruzione del passato attraverso i flashback in questo film, un intento delle sceneggiatore?
PM: Assolutamente sì, il giovane scrittore e sceneggiatore Marco Porru (che è in libreria con un romanzo fantastico e pluri-apprezzato dalla stampa nazionale L’eredità dei corpi edito da Nutrimenti) ha impostato la sceneggiatura così, una sorta di incastro a scatole cinesi. Mi è piaciuto questo suo modo di raccontare, la sua originalità, questa scelta di non linearità a cui si è affidato.

PB: Le tematiche omosessuali sono presenti in molti dei tuoi lavori, quale messaggio intendi trasmettere in merito a questa diversità? C’è qualche grande regista del cinema internazionale a cui ti ispiri?
PM: Mi piace sempre inserire queste note sull’omosessualità perché arricchiscono le mie storie. Esplorare la voglia di paternità di un gay e, nello stesso tempo, il disagio di uno come lui, anche riguardo al giudizio che ne dà la Chiesa nel film I bambini della sua vita è stato molto importante anche per me. InDimmi che destino avrò, il personaggio è secondario, cerco però di mettere in risalto che anche se il commissario in qualche modo accetta l’omosessualità di suo figlio, gli manca l’apertura per accettare e confrontarsi sulla diversità culturale dei Rom, almeno inizialmente.

PB: Mi racconti come mai hai scelto la strada del cinema? Qualcuno della famiglia o degli amici ti ha influenzato o è una passione tua personale?
PM: Mio padre è un commerciante, mia madre è sempre al suo fianco, non ho esempi familiari nel mondo del cinema. È una mia passione, nata fin da piccolo, fin dai tempi in cui frequentavo la cineteca sarda a Cagliari. È stata una scelta di vita, quella di dedicarmi interamente a questo lavoro. Lo faccio con infinita passione, non parlo solo di cinema, ma di documentari, spot pubblicitari e tanto altro.

PB: Su quale film stai lavorando in questo momento? Ho saputo che a Cannes diversi produttori sono interessati al tuo lavoro, hai delle novità in merito?
PM: Dimmi che destino avrò ha partecipato al Marchè di Cannes 2013 grazie a Cosimo Santoro e la sua The Open Reel. Il film ha interessato molti distributori esteri e soprattutto festival. In Italia il film è distribuito dalla Pablo di Arcopinto (è uscito al cinema lo scorso 29 novembre, dopo la presentazione ufficiale al Torino International Film Festival) e ha fatto un ottimo lavoro di divulgazione, se si pensa che quasi 35mila persone tra sala e web (l’uscita natalizia con Repubblica.it) hanno visto l’opera. Ora sto lavorando a un documentario sulla grande attrice Piera degli Esposti, poi ho un’infinità di altri progetti, però per scaramanzia preferisco non parlarne. Nel mondo del cinema non c’è mai nulla di certo, il motore di tutto sono i contributi legati ai produttori e non so ancora quale o quali di questi progetti andranno effettivamente a buon fine.

PB: Cosa ti aspetti dal futuro e che cosa desideri più di ogni altra cosa nel tuo lavoro e - perché no - anche nella vita?
PM: Mi aspetto di riuscire ancora a lavorare in questo settore. Sono tempi difficili, in cui c’è un passaggio epocale importante. Le nuove tecnologie rendono ogni cosa semplice e a portata di mano compresi i film da scaricare con facilità dal web. C’è difficoltà a distribuire i film, molta difficoltà ad avere visibilità, inoltre, oltre agli scompensi creati dai facili prodotti gratuiti, l’offerta è veramente tanta e occorre farsi largo tra la folla dei film. Mi auguro che prima o poi ci sia una compensazione tra il fare e il far vedere l’opera, me lo auguro per me e per tutti i professionisti seri che fanno il mio stesso lavoro.

PB: Sei emigrato dalla tua isola: necessità o volontà? Hai qualche nostalgia o rimpianto?
PM: Fin da piccolo ho sempre amato viaggiare e ora devo dire che è molto facile andare e tornare. Io amo girare l’Italia e anche il mondo quando mi sposto per i vari festival. Mi piace questo movimento e con il lavoro da regista, che è lontano dai vincoli impiegatizi, ho la libertà di volare.
PB: Se a 35 anni hai già lavorato con nomi come Piera degli Esposti, Paolo Bonacelli, Nino Frassica, con gli scenografi Desideri, Marco Onorato e tanti altri, cosa farai da grande? Posso definirti una delle giovani promesse del cinema italiano o la crisi ha talmente investito il nostro Paese che sarai ancora costretto a emigrare oltre il Bel Paese?

PM: Ti ringrazio, ma io nutro diffidenza quando si dice che sono giovane. Negli altri paesi a 25-30 anni si è già diventati dei professionisti, mentre qui sembra che cominci ora ad affacciarti nel mondo del cinema. Io sono uno che si muove molto, perché ho scelto di fare solo questo lavoro, faccio tanto e trovo stimolante conoscere sempre gente nuova. Mi piacerebbe immensamente anche andare a girare all’estero, sono assolutamente aperto, non ho limiti e non sento che andare oltre l’Italia sia una costrizione. Sono un cittadino del mondo, non capisco, piuttosto, quelli che stanno fermi. In un certo senso li ammiro, io mi sentirei prigioniero. Voglio vivere intensamente e fare tutti i viaggi che mi sarà possibile fare in questo meraviglioso e misterioso viaggio che ci offre la vita.

Ringraziamo il simpatico Peter per la sua disponibilità e speriamo che questa sua apertura verso il mondo lo conduca a Itaca solo dopo aver esplorato tante altre interessanti isole…
Pubblicato: Venerdì, 7 Giugno 2013
Articolo di:  Patrizia Boi

Dimmi che destino avròDimmi che destino avròDimmi che destino avrò
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